Per un’etica del metodo.
Il cross selling in fase pandemica.
Uno degli aspetti che mi ha sempre affascinato della lingua italiana è la sua estrema complessità e varietà di vocaboli, nonché la sua moderna apertura all’inclusione di nuovi sostantivi stranieri, talvolta molto più utilizzati degli stessi termini italiani, tali da non far più nemmeno inorridire i più conservatori rappresentanti dell’Accademia della Crusca.
Fra questi anglicismi vi è il termine keyword, la cui origine, ricondotta al lessico informatico (parola chiave utile ad identificare un documento o a compiere ricerche in un database) nel tempo si è evoluto in termini sociologici e culturali, assumendo il significato più profondo di valore o principio guida fino ad estendersi come indicatore epocale rappresentativo di una condizione esistenziale.
Si pensi al periodo storico che stiamo attraversando, dove il termine pandemia (opportunamente distinto da epidemia da Tedros Adhrom, direttore generale dell’OMS) non costituisce etimologicamente solo la determinazione di un fenomeno virale di portata mondiale, ma determina una vera e propria condizione esistenziale del genere umano con tutti i suoi derivati psicologici e socio-economici; una keyword, appunto, destinata a permanere per lungo tempo nella memoria dell’umanità del terzo millennio.
Nel mondo farmacia, diverse sono state le keyword che hanno caratterizzato l’evoluzione- e spesso la turbolenza- di una professione costantemente sollecitata a rivedere e correggere la sua identità per attivare nuovi orientamenti strategici; fra queste, una ricorrente nella pratica quotidiana al banco, è cross selling.
Cross selling !
Croce e delizia della moderna pratica farmaceutica, osannata dalle aziende e dagli informatori scientifici, tollerata e talvolta detestata da alcuni farmacisti, compresa ed adeguatamente praticata da altri.
Difatti il problema- come sempre- è nella comprensione ancor prima che nell’attuazione, poiché, laddove l’interpretazione di un termine- che poi rappresenta un metodo- avviene in maniera parziale o frammentaria, o ancor peggio decontestualizzata dal mondo farmacia, l’effetto è quello di una errata attuazione, ancor più enfatizzata dall’attuale limitazione relazionale e professionale farmacista-paziente.
Vari testi di marketing parlano di cross selling come di una tecnica consulenziale che consiste nell’associare al prodotto richiesto e acquistato dal cliente altri beni o servizi complementari, tanto che la tecnica favorisce un elevato livello di fidelizzazione del cliente, avendo quest’ultimo la percezione di una risoluzione completa al suo problema.
Fin qui la definizione tecnica che necessita di contestualizzarsi nella farmacia italiana in fase Covid in termini di significato e metodo, pena una trasposizione culturalmente inappropriata.
In un recente brain storming con un gruppo di farmacisti sulle prospettive della farmacia, abbiamo coniato uno slogan che in due cifre indica il perimetro entro cui questa dovrà muoversi in futuro: 360°- 4.0.
360, perché il Covid- al di là delle ipotesi complottiste da spy story o le discutibili dimostrazioni negazioniste- ha senza dubbio sollecitato ogni individuo ad una maggiore riflessione sulla fragilità della salute e quindi all’urgenza di prendersene cura a partire dallo stile di vita, all’alimentazione, alle modalità relazionali e socializzanti, alla tutela dell’ambiente in genere.
4.0, perché le abitudini dettate dalla necessità del distanziamento, e in taluni mesi dall’isolamento, hanno sensibilizzato molti ad una relazione virtuale con il farmacista, professionista ancor più diventato centrale rispetto al dottor Google.
Ed è per questo che all’interno di quest’alveo di approccio consulenziale, il cross selling è un metodo di lavoro che parte dal professionale ed arriva al commerciale e non viceversa, tanto che in farmacia rappresenta una eccellente modalità di risoluzione del problema/patologia del cliente tratteggiandone la soluzione completa.
Parlare oggi di cross selling e mentalmente far scattare il binomio “antibiotico-fermento lattico” non solo squalifica il professionista ma lo lega e limita ad un modello di farmacia pre Covid per molti versi estinto, rispetto al quale la farmacia di comunità rischia di specchiarsi in maniera confusa.
Ed allora facciamo chiarezza in questo nuovo spazio-tempo in cui la possibilità di valorizzazione della farmacia è ormai un processo in divenire che non può più essere arrestato (si pensi semplicemente alla “virtualizzazione” del rapporto cliente-farmacista-medico di base attivato grazie al numero di ricetta elettronica) e che richiede un cambio di mentalità e di approccio professionale.
D’altronde non possiamo parlare di cross selling e dimenticare l’opportunità, di recente avviata, dei servizi in farmacia, che in modo ancor più funzionale approfondiscono e completano la soluzione al problema del paziente.
Il cross selling dunque non ha più significato se come farmacista:
- proponi il fermento lattico associato all’antibiotico in modalità “distributore automatico”,
- proponi l’offerta invernale delle pantofole a chi ti chiede uno spazzolino,
- rifili un prodotto tanto per alzare la media scontrino col rischio di perdere il cliente,
- devi far fuori i “cadaveri di magazzino”,
- sai bene che quel prodotto non risolve il problema del cliente (la tua deontologia vale più di ogni ragione commerciale).
Di converso, ogni tecnica- cross selling compreso– ha senso e significato se:
- ciò che proponi (prodotti e servizi) rappresenta la soluzione completa al problema del paziente,
- ritieni che il paziente potrebbe subire un danno o un beneficio parziale non acquistando la tua soluzione,
- reputi che la tua onestà intellettuale e professionale sarebbe svilita se non proponessi una soluzione completa,
- libero dalle tue stesse idee autolimitanti, non “fai i conti in tasca al cliente” ma proponi in modo responsabile,
- quello che ti motiva nel lavoro è il benessere del paziente e ritieni che la componente commerciale è solo una naturale conseguenza di un atto professionale empatico e qualificato.
Il cross selling è un metodo e tale rimane; poi c’è qualcosa di più alto, e sono le leggi etiche che devono animare l’operato di ogni professionista che si riconosce in un ruolo, in una categoria, in un gruppo e che quindi valorizza lo status psicofisico del suo interlocutore.
Una grande atea ma nel contempo ricercatrice del mistero profondo dell’universo, diceva:
Le leggi morali non ce le ha date Dio, ma non per questo sono meno importanti. Queste dovrebbero essere l’etica dominante, senza aspettarsi una ricompensa nell’aldilà. (Margherita Hack).
Prima l’etica, poi il metodo. Il resto viene da sé.