Dalla dipendenza alla interdipendenza: teoria e pratica di un approccio anticonformista alla gestione del personale
Dipendente: “Di persona che per il lavoro che compie e per il grado che ricopre dipende dall’autorità di un’altra persona”.
Così il Vocabolario Treccani della Lingua Italiana, che attesta la presenza di una chiara e definita linea di comando e di esecuzione, in cui lo spazio di manovra e di autonomia decisionale, e ancor meno creativa, del sottoposto è di fatto ridotta ai minimi termini se non addirittura nulla.
Ma si è dipendenti per scelta, per opportunità di vita, per esperienze pregresse, per modelli educativi o per uno strano disegno del destino?
Forse tutte, e molte altre di queste ragioni, possono indurre un individuo a determinare la propria vita dipendendo, appunto, dal volere di un altro, poiché quando tutto questo avviene, tendenzialmente si “dormono sonni più tranquilli” laddove il futuro della propria organizzazione dipenderà da altri- si chiamano titolari o imprenditori- che dovranno fare tutto il possibile per contrastare dinamiche di mercato sempre più complesse e turbolente.
È una questione di ruoli, di responsabilità ma anche di atteggiamento.
Ma una domanda sorge spontanea: ma, al di là dello status giuridico-formale di un individuo, agli esseri umani piace davvero essere sempre e comunque dipendenti?
O ancora meglio: è sempre e comunque vero che in generale un individuo, in questo caso un professionista, desidera esclusivamente affidare le sorti dell’organizzazione da cui dipende- nella quale magari lavora da una vita- a qualcun altro, spegnendo letteralmente “testa e cuore” non appena oltrepassa la soglia della propria farmacia?
Francamente penso proprio di no! E sai come l’ho capito? Prendendomi, in tutti questi anni, centinaia di caffè al bar con tanti collaboratori di farmacia!
Mi spiego meglio:
I tempo del film: entro in farmacia, mi guardo intorno ed intercetto un personaggio col camice bianco ed il caduceo che fa il suo lavoro.
Tendenzialmente ha un aspetto professionale, sa interessarsi al cliente in modo empatico (se gli va), sa dare il giusto consiglio (se non è troppo selettivo), sa anche proporre in modo ampio prodotti e servizi (se è preparato e determinato) ma…spesso è troppo serio, troppo formale, troppo distaccato, ma soprattutto “troppo spento”.
Lo leggi dal suo sguardo, dal suo tono, dal suo modo di rapportarsi col cliente.
II tempo del film: Inizio a frequentare quella farmacia come consulente e quindi con quel collaboratore ci parlo in modo informale, amichevole, spontaneo-al bar appunto- e scopro che nel suo tempo libero balla il tango, allena una squadra di ragazzini all’oratorio, è appassionato di stampe dell’800, ama fare dolci…e mentre ti parla di tutto questo lo vedi trasfigurare, il suo tono ed il suo atteggiamento cambiano. Anzi in queste aree della sua vita (che si chiamano hobby) è molto poco dipendente, è proattivo, determinato, autonomo, volitivo.
E sai perché? In quell’ambito sta vincendo, sta esprimendo il suo potenziale, si migliora in modo autodeterminato e tutto senza che qualcuno glielo dica o glielo ricordi.
È una vecchia storia che abbiamo più o meno vissuto tutti sin da piccoli allorquando per svegliarci al mattino per andare a scuola avevamo bisogno delle cannonate-alias urla della mamma- ma se dovevamo andare in campeggio con gli amici eravamo pronti molto prima della sveglia.
È solo una questione legata all’antica diatriba fra dovere e piacere, o dobbiamo, nell’era digitale, ancora espiare la colpa antica del lavoro come “sudore e fatica”, male necessario per la nostra sopravvivenza?
Non credo: spesso è una questione di clima lavorativo che come quello meteorologico è composto di molteplici fattori quali mete che si traducono in progetti innovativi, obiettivi sfidanti, occasioni di interazione e confronto programmate, percorsi di crescita professionale strutturati, sistemi di incentivazione codificati e resi noti, e tutto questo non una tantum ma come stile di gestione dei collaboratori.
L’altra faccia della medaglia si chiama isolamento, orientamento al gruppo inesistente, tensioni al vetriolo, diritti che precedono sempre e comunque i doveri, sforzi inutili per ottenere scarsi risultati, subaffito della propria intelligenza ed emotività per le otto ore lavorative.
Forma bene le persone che lavorano con te perché possano andarsene altrove, ma trattale bene perché abbiano voglia di restare con te”
Così Richard Branson, fondatore della Virgin Group.
Quale l’effetto di questo cambio positivo di clima? Vedrai collaboratori passare dalla dipendenza alla interdipendenza, quella condizione di profondo coinvolgimento per cui il farmacista penserà come il magazziniere, l’amministrativo come un farmacista, l’addetta cosmesi sentirà la stessa responsabilità del farmacista nella crescita aziendale ed il magazziniere avrà la stessa attenzione verso il cliente dei colleghi al banco, poiché il contributo di ognuno non sarà settoriale o classificato in modo diverso ma funzionale ad una sola causa comune, quella aziendale
Ma questa alchimia si crea nel tempo, appunto: perché l’interdipendenza si coltiva con pazienza e metodo e con piena responsabilità supportata da uno schema di azione che prevede passione e coinvolgimento.
Melissa Schilling, una delle più importanti studiose di management in ambito tecnologico, studiando le azioni di successo dei più grandi geni moderni della scienza e della tecnica da Eistein a Maria Curie, da Nikola Tesla a Steve Jobs, dimostra che se questi personaggi sono stati accomunati dal coraggio e dalla determinazione sviluppata nello sfidare le convinzioni più radicate del loro tempo, il loro impatto si è fatto planetario allorquando hanno sviluppato abilità di coinvolgimento di altri soggetti nell’attuazione delle loro idee e progetti.
Anche i geni hanno avuto bisogno di creare interdipendenza intorno a loro: questo vale anche nel tuo piccolo.
Il successo pratico di un’idea, indipendentemente dalle sue qualità inerenti, dipende dalla scelta delle persone che ti circondano.
Nikola Tesla, ingegnere elettrico, inventore, fisico, soprannominato lo “scienziato pazzo”.
Michele Ciccolella